Nel 1890, la Seconda Internazionale — l’organizzazione che riuniva i partiti socialisti a livello globale — stabilì di commemorare il Primo Maggio in onore dei “martiri di piazza Haymarket”. Tra loro vi erano anche quattro operai giustiziati nel 1887, protagonisti di uno sciopero nazionale iniziato il 4 maggio 1886 a Chicago. Durante la protesta, scoppiò un violento conflitto tra la polizia e i manifestanti, innescato dal lancio di una bomba contro gli agenti, che risposero aprendo il fuoco sulla folla. I lavoratori chiedevano l’applicazione effettiva di una normativa già vigente nello Stato dell’Illinois, che prevedeva la riduzione della giornata lavorativa a otto ore, da estendere a tutto il territorio degli Stati Uniti.
Lontani da quel momento storico, ma vicini per molti aspetti, il Primo Maggio continua a interrogarci sulle reali condizioni dei lavoratori di oggi e su come il mondo del lavoro e la progettazione del futuro siano cambiati.
Nonostante i progressi e le trasformazioni, in Italia il lavoro e la precarietà che lo caratterizza restano fonte di forte preoccupazione anche nel 2025. I salari stagnanti rispetto al crescente costo della vita rappresentano una criticità rilevante. La diminuzione del potere d’acquisto è il segnale evidente di una disfunzione che investe lavoro, economia e politica, richiedendo un’attenzione immediata e soluzioni urgenti per evitare trasformazioni radicali del tessuto sociale ed economico, difficilmente reversibili.
Il Quadro
La misura effettiva dei guadagni delle persone è rappresentata da quello che in economia viene definito salario reale, ovvero il salario rapportato ai prezzi. Secondo i dati forniti dall’Ocse, l’Italia è tra le principali economie europee ad aver registrato la maggiore contrazione dei salari reali, con redditi medi inferiori ai livelli degli anni ‘90. Solo nel 2022, rispetto al 2021, si è registrato un calo del 7,3%, in un anno in cui la crescita dei prezzi — spinta soprattutto dal rincaro dell’energia — ha drasticamente eroso il potere d’acquisto delle famiglie.
Una situazione che, secondo il rapporto Ocse, ha assunto ormai un carattere strutturale: tra il 1990 e il 2020 i salari medi in Italia sono diminuiti complessivamente del 2,9%. Un quadro reso ancora più critico dall’inflazione alimentata dalla guerra in Ucraina e dalla rapida ripresa post-Covid.
“I bassi salari sono la spia di un malessere profondo dell’economia, che deriva da una crescita anemica della produttività totale dei fattori. I salari fermi sono, a mio avviso, la più grande ferita nel modello di specializzazione produttiva dell’Italia, basato sulle piccole e medie imprese. Con un impatto inevitabile anche sulla demografia”, spiega Tommaso Monacelli, ordinario di Macroeconomia all’Università Bocconi di Milano.
Ecco, in tanti rinuncerebbero a lavorare e fare impresa in un paese dove:
I salari sono oggi più bassi rispetto agli anni ’90, con una retribuzione media tra le più basse dell’Unione Europea: circa 35 mila euro, a fronte di una media Ocse di 46 mila euro.
La pressione fiscale resta tra le più alte al mondo, soprattutto se si considera la combinazione di tasse sul reddito, IVA, accise e contributi previdenziali.
Il tasso di disoccupazione giovanile si attesta al 18,7%, il secondo più alto nell’Unione Europea, mentre la disoccupazione femminile, stabile al 7,3%, rappresenta il terzo valore più elevato tra i Paesi membri.
Anche il welfare, il sistema di protezione sociale volto a garantire il benessere economico e sanitario dei cittadini, appare sempre meno sostenibile. I servizi pubblici — assistenza sanitaria, sussidi di disoccupazione, pensioni, istruzione e altre forme di sostegno — risultano sotto pressione, mettendo in discussione la capacità dello Stato di garantire una rete di sicurezza efficace per le fasce più deboli della popolazione.
Il Punto
La crisi demografica in atto avrà un impatto pesantemente negativo sull’occupazione: l’aumento della popolazione in età avanzata e il calo delle nascite, con un conseguente basso ricambio generazionale, rischiano di mettere in crisi l’intero sistema Paese. Secondo le stime Istat ed Eurostat, entro il 2040 l’Italia perderà circa 3,1 milioni di lavoratori, un calo che arriverebbe a 4,6 milioni nel 2050. Se il tasso di occupazione dovesse restare costante, già nel 2030 il numero degli occupati subirebbe una flessione del 3,2%, a fronte di un calo europeo più contenuto, pari allo 0,6%.
Dal rapporto annuale Istat emerge inoltre che, negli ultimi vent’anni, i giovani italiani tra i 18 e i 34 anni sono diminuiti di 3 milioni, e nei prossimi vent’anni se ne perderanno altri 3 milioni.
Alla base della crisi demografica vi sono precarietà lavorativa, stipendi bassi e carenza di servizi. Sette giovani su dieci dichiarano di desiderare almeno due figli, ma quasi l’80% delle donne teme che la maternità possa compromettere il proprio lavoro e il potere d’acquisto. I salari bassi rappresentano ancora una volta un fattore determinante in questo quadro: negli ultimi dodici anni circa 550 mila giovani italiani, tra i 18 e i 34 anni, hanno lasciato il Paese per lavorare all’estero, alla ricerca di migliori prospettive di vita.
Potenziali genitori che avrebbero potuto offrire all’Italia un futuro diverso, se solo avessero avuto l’opportunità di costruire un presente migliore. Perché, come si dice, “il lavoro dignifica, il lavoro nobilita l’uomo”.
Nota
Secondo Bill Gates, il fondatore di Microsoft, entro meno di un decennio l’umanità potrebbe lavorare appena due giorni alla settimana, grazie — ovviamente — all’Intelligenza Artificiale.
Una trasformazione epocale è già in atto. Ma questa è un’altra pagina di storia: tutta da osservare, vivere e raccontare.
Nel frattempo, buon Primo Maggio.