Ad aprile 2025 l’occupazione italiana ha raggiunto livelli di stabilità nel mercato del lavoro degli occupati pari a 24,2 milioni, ma con alcune criticità per fasce di età o categorie. Emerge come primi dati che l’occupazione degli uomini tra i 25-34 anni e gli over 50 crescono con (+1,0%) di lavoratori autonomi e un + 0.8% dei dipendenti a termine, mentre calano i lavoratori con contratto a termine di uno -0.5% e l’occupazione femminile. Il tasso di occupazione italiano rimane stabile con un raggiungimento del 62.7% nonostante il tasso inattività cresca di un + 0.1% in particolare tra i giovani over 35. Il tasso di disoccupazione scende invece al 5.9% e l’occupazione sale di 96mila unità e quello giovanile raggiunge il 19.2%. Dati che risultano essere incoraggianti dando evidenza di un mercato del lavoro sempre più attivo, in linea con la narrazione attuale del governo italiano.
I salari reali non crescono
Nonostante le dichiarazioni del governo, il Rapporto annuale Istat 2025 documenta un calo del potere d’acquisto delle retribuzioni lorde annue per dipendente del 4,5% tra il 2013 e il 2023, contro un +7% della Germania, +4,3% della Francia e +1,8% nella media dell’Eurozona. Il 2023, primo anno pienamente sotto il governo Meloni, ha visto un’ulteriore flessione dello 0,7% in termini reali. Solo nel primo trimestre 2024 si è registrata una timida crescita (+0,8% annuo) delle retribuzioni contrattuali orarie reali, più per effetto del rallentamento dell’inflazione che per una reale dinamica salariale. Tuttavia, questo indicatore spesso usato dal governo misura solo la paga oraria prevista dai contratti collettivi e non riflette la retribuzione effettiva complessiva dei lavoratori. I salari contrattuali, se corretti per l’inflazione, restano inferiori ai livelli del 2021. Non si può quindi parlare di una vera ripresa salariale strutturale.
Retorica politica e realtà economica
Le affermazioni della presidente Meloni su una netta inversione di tendenza dal 2023 in poi si scontrano con l’evidenza statistica. La narrazione politica ha fatto leva su dati parziali e indicatori mal interpretati, presentando un quadro ottimistico che non trova riscontro nei numeri. L’Italia resta tra i pochi Paesi Ue in cui i salari reali non sono ancora tornati ai livelli pre-pandemici. Le cause strutturali sono note: stagnazione della produttività (+2,1% tra 2010 e 2023 contro +9,3% Ue), alta incidenza di contratti precari e part-time involontari, e lentezza nel rinnovo dei contratti collettivi (oltre il 40% dei lavoratori ne aveva uno scaduto a fine 2024). Per avviare una vera inversione, non bastano gli effetti congiunturali dei rinnovi o i miglioramenti trimestrali: servono politiche strutturali di rafforzamento della contrattazione, incentivi alla produttività e una riforma fiscale che sostenga i redditi medio-bassi. L’Istat, con il suo rapporto, smonta la retorica e richiama alla realtà: in economia, contano i dati, non la propaganda.