Qual è oggi il vero limite del servizio taxi e Ncc nelle città italiane? La domanda non è retorica: secondo uno studio elaborato da Muoviti Italia, guidato dall’economista dei trasporti Andrea Giuricin, la risposta è semplice e – se confermata – di peso macroeconomico. Un mercato bloccato dalla scarsità di licenze. Non dalla mancanza di clienti, né dalla tecnologia, né dalla concorrenza delle piattaforme digitali.
Lo studio quantifica il potenziale economico di una riforma del settore: 2,4 miliardi di euro di fatturato aggiuntivo, 85 mila nuovi lavoratori e circa 500 milioni di euro di entrate fiscali. Numeri che, per dimensioni, sfiorano quelli di un intervento industriale vero e proprio. Da dove arriverebbe questo impatto? Dall’aumento delle licenze taxi e Ncc nei principali centri urbani, oggi ferme a livelli che non riflettono più i flussi moderni di mobilità.
Il punto di partenza è noto a chiunque viva una città come Milano, Roma o Firenze: nelle ore di punta trovare un taxi è difficile, a volte impossibile. Le app mostrano tempi di attesa lunghi, gli stalli sono vuoti, le chiamate non vanno a buon fine. E allora la domanda sorge spontanea: è davvero razionale mantenere un mercato a numero chiuso in un contesto in cui la domanda cresce e l’offerta no?
Lo studio sostiene che la risposta sia «no» e che la rigidità regolatoria – vincoli territoriali, licenze contingentate, norme nate quando non esistevano smartphone né piattaforme – sia il principale freno all’espansione di un settore che potrebbe contribuire in modo significativo alla mobilità urbana.
L’aumento delle licenze, nelle simulazioni, porterebbe a una maggiore disponibilità di taxi e Ncc nelle ore critiche, con un effetto diretto sulla riduzione dei tempi di attesa. Meno attese significa più corse; più corse significano più fatturato; e più fatturato significa più lavoro, anche in forma di occupazione aggiuntiva. Sembra lineare, ma è esattamente ciò che, secondo l’analisi, non riesce ad accadere sotto l’attuale regime di offerta bloccata.
Una riforma del genere avrebbe ovviamente risvolti delicati: come tutelare chi ha acquistato licenze a prezzi elevati? Come evitare squilibri territoriali? Come garantire standard minimi uniformi? Sono questioni aperte, su cui lo studio non entra nel merito, ma che restano fondamentali per una transizione credibile.
Resta però il punto centrale: il settore della mobilità non di linea non è un comparto marginale. È un’infrastruttura. E come ogni infrastruttura, quando non cresce al passo con la domanda, genera inefficienze, frustrazione e perdite economiche. L’Italia sta vivendo una fase in cui l’innovazione nei trasporti – elettrico, sharing, app – corre più veloce della regolazione. La riforma proposta da Muoviti Italia rientra in questo contesto.
La domanda finale è inevitabile: il Paese è pronto a una liberalizzazione (o almeno a un ampliamento programmato) del servizio? E soprattutto: chi, tra Stato e Comuni, avrà la volontà politica di affrontare un tema che ciclicamente torna nel dibattito e ciclicamente si arena?
La risposta, per ora, è nel solco dei numeri. Se lo studio avrà la forza di rimettere il tema al centro, lo scopriremo nei prossimi mesi. Ma una cosa è certa: i cittadini, soprattutto nelle grandi città, hanno già espresso il loro verdetto. E non da oggi.




